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Geo Chávez
Felice Trojani
Il
Romanzo dell'Aviazione
Un
estratto : Geo Chávez
© Ascanio Trojani e Francesca Quatraro, 2014
Il Volo che Valicò le Alpi : sotto
questo bellissimo titolo Luigi Barzini (che seguì giorno per giorno,
fino al suo eroico e tragico epilogo, quella audace impresa aviatoria)
raccolse le corrispondenze che aveva mandate al suo giornale, il
Corriere della Sera. Le pubblicò senza alterarle; conservano perciò la
freschezza di appena scritte. Alcune sono opache, semplici riempitivi
(ai giornalisti accade talvolta di dover mandare un servizio senza aver
nulla da dire), molte sono palpitanti, drammatiche. Se vi accadesse di
trovare il libro, leggetelo; ne vale la pena. Frattanto accontentatevi
del nostro racconto.
La sera del 27 settembre
1910, a Roma, in Via Alessandria, un tredicenne studente di ginnasio,
usci di casa per andare a comprare La Tribuna. Il giornalaio era
all'angolo di Via Reggio; il ragazzo, titubante, era combattuto fra la
voglia di correre e quella di non avanzare: era ansioso di leggere la
notizia, e temeva di conoscerla. Percorsi quei centocinquanta metri,
afferrò il giornale, lo guardò, e grosse lacrime gli rigarono le gote:
Chávez era morto.
È difficile, oggi, esprimere
la commozione unanime che il volo di Chávez suscitò, commozione che non
è ancora spenta in chi ebbe la ventura di provarla allora.
Traversata la Manica, effettuata la Londra-Manchester,
superato
il mare, vinte le distanze, l'aeroplano sembrava già emancipato. Ma non
vi erano realmente altre barriere da infrangere?
L'ostacolo esisteva e, per le possibilità degli aeroplani
d'allora, era tremendo: la montagna. L'aeroplano, ancora notevolmente
fragile, da una ventina di mesi appena aveva superato la prima fase dei
timidi voli sperimentali ed era uscito dai campi d'aviazione per
azzardarsi sulla campagna; la velocità si aggirava sui 70, 80
chilometri all'ora, l'altezza massima raggiunta era di 1.290 metri. La
montagna era stato l'ostacolo che più a lungo si era opposto alle
comunicazioni fra i popoli, vinta soltanto dai trafori che avevano
sostituito il pericoloso e precario traffico per i valichi. Altezze non
ancora raggiunte, cime vertiginose, precipizi paurosi, gole orrende,
ghiacciai immensi, nevai, tormente, nebbie improvvise, nembi, bufere,
venti impetuosi che si incanalavano nelle gole e nelle valli scuotendo
e piegando gli alberi più solidi: questo era quanto la fiera montagna
avrebbe opposto agli aviatori che, lasciata la pianura, avrebbero
affrontato la scalata.
A ciò pensava Arturo
Mercanti, e si diceva: «l’aeroplano sarà consacrato dominatore del
cielo solo dopo che avrà superato le montagne, montagne vere, montagne
formidabili. E quali più vere, più formidabili montagne delle Alpi? Il
Valico del Sempione, per esempio: bisognerebbe salire oltre i 2.100
metri e volarvi per più di mezz'ora, lottare contro venti a raffiche,
contro un freddo al quale né piloti né apparecchi sono abituati. »
Stava organizzando una settimana d'aviazione da tenersi a
Milano,
e, dopo studi ed esami, inserì nel programma la gara Briga-Milano, con
100.000 lire di premio all'aviatore che, per primo, avesse effettuato
il percorso. Briga è in Svizzera, nel Canton Vallese.
I meteorologi competenti, previamente interpellati, erano
stati
quasi unanimi nel proclamare l'impossibilità dell'impresa; solo alcuni
l'approvarono e l'incoraggiarono.
Assicurato il
finanziamento, la gara venne bandita: molti aviatori ne accolsero
l'annuncio con favore. I piloti ritenuti
più idonei a
compiere il volo, erano Paulhan e Latham; il primo aureolato dal
successo della Londra-Manchester, il secondo popolare e ammirato per
il coraggio e la tenacia dimostrati negli sfortunati tentativi di
attraversare la Manica. Abile pilota, bei giovane, elegante, mondano,
era l’uomo del momento.
Ma Paulhan si stava
trasformando in industriale, e non ebbe voglia di impegnarsi in quella
rischiosa impresa; Latham avrebbe voluto che la traversata fosse
riservata a lui. Aderì tentennando, e infine rinunciò, accusando il suo
motore di cattivo funzionamento ad alta quota; fatto verosimile, perché
il motore Antoinette era troppo perfezionato e moderno (anzi futurista)
per funzionare con sicurezza.
Dopo esame del
percorso e chiara illustrazione da parte del Comitato milanese delle
difficoltà da superare, finirono con riscriversi cinque piloti: Chávez,
Cattaneo, Wiencziers, Weymann, Paillette; ma di essi solo Weymann e
Chávez affrontarono la prova.
Weymann disponeva
di un biplano Farman costruito appositamente, e compì numerosi
tentativi, ma l'apparecchio, malgrado ripetute modifiche e messe a
punto eseguite a Briga da Henry Farman in persona, si rifiutò di
scalare la montagna.
Chávez era già conosciuto
dagli italiani perché aveva partecipato alla settimana di Verona (dal
22 al 29 maggio, pure organizzata da Mercanti), nella quale aveva
montato un biplano Farman e si era distinto nelle prove di altezza. Sua
peculiarità erano i voli planés a picco, precipitosi.
Jorge Antonio (Geo) Chávez Dartnell, 23 anni, peruviano, era
ricco: lui e i suoi due fratelli avevano ereditato dal padre una banca
che lavorava con la Francia, e viveva a Parigi con il fratello che
dirigeva la filiale europea. Si era dedicato all'aviazione non per
sete di guadagno o smania di fama, ma per amore del rischio e dello
sport, e si era appassionato alla nuova arte, ne era stato preso come
da una religione. In dedizione completa, le lusinghe di un mondo
frivolo non erano più niente per lui.
Partecipava alle gare perché vi era costretto da una clausola
del
contratto senza il quale non si poteva acquistare un Farman, ma
agognava di compiere qualche impresa nuova e grande, e non era
soddisfatto del suo biplano pigro a salire: avrebbe voluto una macchina
che scalasse fulmineamente il cielo. Provò il monoplano Blériot, e al
primo volo salì a 1.200 metri: era quello l'aeroplano che ci voleva per
lui.
Era pilota dal Febbraio del 1910.
L'annuncio della gara lo interessa, insieme con gli amici
Duray
(pilota di Farman, appena rimesso da una grave caduta a Verona) e
Christiaens si reca sul posto. I tre, accompagnati da Mercanti,
compiono in automobile il percorso, lo esaminano, si rendono conto
delle difficoltà. Chávez ne è avvinto, sente tutto il fascino della
prova, la tenterà; e prega Mercanti di iscriverlo. Ma non monterà il
Farman, avrà un Blériot.
— Ho telegrafato a Blériot ordinando un apparecchio tipo traversata. Me
lo deve consegnare l'otto Settembre mattina. Ne farò il collaudo
battendo, su Parigi, il record d'altezza. Sarà già qualche cosa.
Il 9 Settembre. Mercanti legge sui giornali che Chávez ha collaudato,
portando il record mondiale d'altezza a 2.580 metri, il monoplano
consegnatogli da Blériot. Ha mantenuto la promessa.
L'organizzazione aerologica e delle comunicazioni, dell'assistenza ai
piloti in caso di discese forzate, delle segnalazioni che permetteranno
loro di riconoscere dall'alto il percorso, viene avviata sui due
tratti, italiano e svizzero.
Gli italiani
operano con entusiasmo e abbondanza di mezzi (eliografi sulle cime,
telegrafi e telefoni, stazioni radio, pattuglie di alpini dislocate
lungo il percorso nei luoghi più impervi e pericolosi); gli svizzeri
fanno del loro meglio, ma i loro mezzi sono scarsi, e il responsabile
del loro servizio meteorologico (illustre professore convertitosi
all'ultima ora alla possibilità della traversata) non dimostrerà zelo
eccessivo.
Gli svizzeri stendono una linea
telefonica sulla strada del Sempione, da Briga al confine, ma la
gendarmeria la terrà quasi sempre occupata per regolare il traffico, e
lo regolerà più con l’occhio volto alle multe che al suo sveltimento.
Chávez ha spedito per ferrovia il Blériot a Briga. Lui, Duray e
Christiaens, sono sul posto, e fanno e rifanno il percorso nelle sue
prevedibili (in relazione alle condizioni atmosferiche del momento)
varianti, lo studiano planimetricamente e altimetricamente (Chávez ha
un barografo registratore che non lascia mai), fanno la spola fra
Briga, Domodossola, Milano. Molti dei migliori piloti (non
concorrenti) vanno a Briga, fanno in automobile il valico del
Sempione, esaminano i luoghi, restano colpiti dalla bellezza della
prova e dalle sue terribili difficoltà
II
Blériot di Chávez è arrivato. Chávez vuole vincere, e non si stanca di
studiare il percorso sulle carte e sui luoghi, e predispone
accuratamente al grande volo, motore, apparecchio, sé stesso.
Il suo monoplano, non molto diverso dal glorioso XI, è uguale a quello
dei vincitori del Circuito dell'Est. Il pattino di coda renderà meno
pericolosi gli eventuali atterraggi in pendio, il motore è lo Gnome
rotativo di 50 HP.
Chávez ha preso le opportune
precauzioni contro il freddo: il serbatoio, le tubazioni, ogni parte
del motore che possa risentirne, sono state fasciate di ovatta e di
amianto; lui ha uno scafandro foderato di seta impermeabile, imbottito
di ovatta, e un elmetto di ovatta e cuoio.
Anche l'aeroplano di Weymann è giunto a Briga, ma lo si sta ancora
montando. È un biplano di linea moderna (per l'epoca), però Farman è
ancora incerto sulla convenienza di abolire l'obsoleto e dannoso timone
di profondità anteriore.
Chávez è pronto.
Christiaens è con lui a Briga, e lo assisterà alla partenza; Duray è a
Domodossola, dove il Blériot farà scalo per rifornirsi di benzina e
d'olio: nella traversata conviene tenere l'apparecchio il più leggero
possibile. Da Domodossola a Milano il volo non presenta difficoltà
particolari.
Il tempo si fa propizio, e la
mattina di domenica 18 settembre, fino alle 10, sarà splendido, Chávez
potrebbe partire, ma il Consiglio Cantonale del Vallese ha proibito i
voli fino a mezzogiorno. È festa, e i cittadini sono religiosi, ma,
oltre che dal desiderio di assistere ai servizi divini, sono animati
da concetti pratici; non è interesse degli albergatori che il richiamo
dei turisti rappresentato dalle prove di volo e dai tentativi
(trasformati dalla propaganda locale nella «Settimana d'Aviazione di
Briga») si esaurisca il primo giorno con il compimento della traversata.
Il Comitato milanese ha protestato, ma il divieto viene mantenuto, il
Blériot di Chávez è piantonato dai gendarmi, e Chávez non può partire.
Peccato, perché solo in quella mattina il tempo fu veramente
favorevole, e solo quel divieto, forse, causò il finale tragico
dell'impresa.
I concorrenti devono preavvisare
il Comitato, con almeno sei ore di anticipo, del loro proposito di
partire. Alle 7 di sera, i Commissari di gara ricevono una
dichiarazione di Chávez:
«Signori Commissari,
ho intenzione di partire domani, lunedì, per la traversata delle Alpi,
alle sei del mattino».
È mattina, è ancora
buio, e Chávez nel suo hangar illuminato da una candela, accanto
all'aeroplano che nella penombra sembra un formidabile mostro alato,
fuma una si-garetta mentre, aiutato da Christiaens, veste il costume di
volo. È silenzioso e pensoso; un giornalista francese mormora:
— Sembra la toilette di un condannato a
morte.
Sorge l'alba, il cielo si schiarisce, i
monti si illuminano.
Chiesta al Sempione la situazione
meteorologica, rispondono che il tempo è calmo, che si può partire.
Chávez decide: tenterà la traversata.
L'hangar viene aperto, le automobili staffette lasciano il campo e si
avventano rom-bando sulla strada del Valico. Il monoplano, elegante,
lieve, diafano, si stacca da terra e si innalza, in ampi giri, su Briga.
Fino alla quota di 1.400 metri, l'aria è calma; oltre i 2.000 vento
moderato, teso; a 2.200 Chávez punta sul Valico del Sempione. Il valico
è chiuso, bloccato da due strati di nubi sovrapposte: l'inferiore
scende rapidamente dalla destra e risale le rocce; il superiore pare
una muraglia: alto, immobile. Fra i due strati, giù in basso, piccolo,
con i suoi segnali di orientamento, è l’albergo del valico. Ma non si
passa.
Chávez pensa di innalzarsi oltre le
cime, oltre le nebbie, oltre le nubi, e di dirigersi con la bussola su
Domodossola. Sale fino a 2.400 metri fra leggeri colpi di vento; le
precauzioni prese contro il freddo, risultano efficaci: né lui né
l'apparecchio ne risentono; il motore funziona perfettamente.
Un improvviso vuoto d'aria fa precipitare l'aeroplano di un centinaio
di metri, Chávez lo richiama manovrando il timone di profondità, e
l'aeroplano si impenna; poi è preso e sballottato da un incrocio di
venti. Non è possibile procedere, non è possibile scendere: sotto di
lui sprofonda un caos di rocce senza fondo.
Bisogna tornare indietro. E Chávez cala precipitosamente, a pieno
motore per non venire sbattuto dal vento contro le pareti a picco.
Atterra, con magnifica precisione, su un praticello vicino al campo di
partenza.
Scendendo dall'apparecchio non mostra
emozione né disappunto. Ma dice a Christiaens:
— Dare la vita per non riuscire sarebbe
stupido: darla per riuscire, sì che sarebbe bello.
Il tempo che aveva trovato sul Sempione era pessimo, tremendo. Come si
giustificava la telefonata rassicurante che affermava: «tutto è calmo,
si può partire»?
Semplice: il responsabile
del servizio meteorologico si era allontanato, era sceso a Briga, e
aveva lasciato all’albergatore del Kulm l'incarico di rispondere alle
richieste di informazioni. E come poteva l'albergatore non assecondare
il desiderio degli ospiti di vedere l'aeroplano?
Chávez non protesta, non recrimina.
Soltanto decide di mandare al Sempione
Christiaens, e si fiderà solo di lui.
Passano tre giorni di tempo non buono. Il valoroso Weymann, sbarbato,
occhialuto e paffuto come uno studente di teologia, imbacuccato come un
esploratore polare, prova ripetutamente il suo biplano, ma questi non
ne vuoi sapere di salire: non riesce neppure a superare i contrafforti
del Sempione.
Chávez è impaziente, il desiderio di
ritentare l'impresa lo assilla, le ore gli pesano.
Venerdì 23 il tempo non è ancora stabilizzato: sul versante italiano,
calma; su quello svizzero, vento impetuoso.
Chávez è pronto. Ha indossato il costume di volo, vuoi
partire.
Pensa che non troverà più condizioni così favorevoli nel tratto
italiano. Christiaens dal Simplon Kulm gli telefona di minuto in
minuto la situazione metereologica. Lui vuole andare a vedere, chiede
un'automobile.
Il vento nella valle di
Krummbach alle spalle del Sempione, è forte. Giunge Paulhan che toma
da una ricognizione: verso il Monscera l’aria è calma.
Nonostante Christiaens lo sconsigli:
— Quale errore! — esclama. Chávez decide
invece di partire.
In un cielo chiaro e calmo valica il Sempione, imbocca la Vallata di
Krummbach, affronta il Passo di Furggen per entrare nel Valico del
Monscera. Ma questi è chiuso: venti contrari lo battono, e il
monoplano, fra le montagne, è preso dai turbini come un fuscello,
lanciato in alto, sbattuto da destra a sinistra, colpito da raffiche
dure come mazzate. Chávez sente il sedile sfuggirgli di sotto, sente
l'apparecchio sbattergli contro, manovra aggrappato al volantino.
Non guarda in basso. Avanti a lui è il Monscera: irraggiungibile; alla
sua sinistra la stretta Gola di Zwischberger. La infila, a 2.100 metri
gira intorno al Seehom ed entra nell'orrida Gola di Gondo, e volando
più basso delle cime, segue la valle. Il vento ancora lo porta in alto,
lo butta giù; ma è in coda, e l’aeroplano fila veloce.
Quel volo appare un prodigio. L'aeroplano bianco e diafano che si
staglia contro il cielo, che procede superbo nel rombo canoro del
motore e dell'elica, non è forse un Genio alato che passa vincendo
venti e turbini, violando i baratri profondi, i ghiacciai immensi, le
bianche eccelse cime?
No. È solo un cuore d'uomo che domina la
montagna reggendo la macchina che l'uomo ha creata.
Sulle strade, sui greppi, nei villaggi, un'onda irrefrenabile di
ammirazione che diventa commozione, che attanaglia i cuori, lo saluta
e lo segue, i voti di tutti lo accom-pagnano. Nessuno ha gli occhi
asciutti. Gli stessi gendarmi, saliti, per aprirle la strada, sull'auto
di Barzini che corre verso Domodossola, piangono, e mormorano
teutonicamente:
— Mon Tieu, mon Tieu...
Quel volo pare trasformarsi in apoteosi.
Chávez prosegue.
© Francesca Quatraro 2014 - Riproduzione Vietata
Punta su Varzo scendendo rapidamente, scorge la Valle dell'Ossola,
punta su Domodossola, e cala a picco sul campo con uno dei suoi
vertiginosi planés accompagnati da spuntate di motore.
A venti metri richiama: le ali si ripiegano in alto e in avanti,
l'aeroplano precipita, urta contro terra, si rovescia sul dorso, si
riduce a un mucchio di rottami.
Sono le 14 e 14. Quel volo è stato come
il passaggio di una meteora: è durato 45 minuti.
Frattanto, anche Weymann è partito; ma
dopo 13 minuti è tornato al campo di Briga. E non tenterà più.
Le lesioni riportate da Chávez non parvero mortali, la sua guarigione
pareva certa. Invece, in quattro giorni egli si spense, ucciso, più che
dalle ferite, dalla grandezza dell'impresa compiuta, tanto grande da
soffocare e spegnere il suo cuore d'uomo.
Povero Chávez! Ma quella che mi parve allora ingiustizia e crudeltà
della sorte, che fece versare lacrime disperate dai miei occhi
d'adolescente, mi sembra oggi grazia e premio del destino, che
trasformando il giovane in Eroe, il precursore in martire, accese un
faro luminoso sul tetro mare della bassezza e della volgarità umane.
Povero Chávez! Le tue ultime parole,
dopo il delirio nel quale continuavi l'interminabile tuo volo, furono:
— No... ciò non esiste... No... io non
muoio.
No, non sei morto. Il tuo spirito plana ancora sul Valico del Sempione,
sulla Gola di Gondo, sul Piano di Domodossola, sull'Alpi da te
dominate. Il tuo ricordo vive in chi ascoltò l'epopea della tua gesta,
in chi visse il tuo tragico trionfo.
E il tuo
esempio serve e ancora servirà a quanti credono e crederanno che
coraggio, entusiasmo e poesia, non devono finire.
Chávez fu il 16° aviatore morto per incidente di volo. Dei primi 100
caduti, 1 perì nel 1908, 3 nel 1909, 30 nel 1910, 66 dal 1° gennaio al
15 novembre 1911.
Il Blériot ed altri cimeli
sono ancora conservati a Domodossola, nel piccolo museo che porta il
nome di Chávez.
Un inedito : Amelia
Earhart
Solo sul web : Gli spazi
del Romanzo
dell'Aviazione
Solo sul web : il percorso di Chavez su Google Earth
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